Car sharing: una per tutti

La genesi è di chiara marca teutonica. Germania anni ’70: nell’ambito delle cosiddette “Wohngemeinschaft”, ovvero gli appartamenti comunità nei quali i giovani studenti condividevano stili di vita alternativi, alcuni inquilini decisero di socializzare non solo le spese di gestione dell’appartamento, ma anche quelle dell’autovettura. Una risposta politica contro l’automobile, da loro considerata un mostro che si aggira per il pianeta, invadendone le strade, le piazze e ogni spazio accessibile, ammorbando l’aria che respiriamo, distruggendo la salute, divorando il tempo e colonizzando la psiche. Un rifiuto ideologico, quello degli studenti tedeschi, che oltre ad abbattere uno status symbol sottolineava la necessità, per l’individuo urbanizzato che vive nelle città del primo mondo, di ricercare un atteggiamento più responsabile nei confronti dell’equilibrio personale e del pianeta che lo ospita. Un’idea che si propagò velocemente anche in Austria, Svizzera e Olanda. A tal punto che nei tardi anni ’80 i giornali cominciarono a parlare di queste sperimentazioni, favorendo così la nascita di una rete tra le diverse associazioni sparse in tutto il centro Europa.

Auto in condivisione

Erano i prodromi di quello che attualmente viene conosciuto come car sharing: letteralmente “condivisione dell’auto”, pratica in base alla quale il mezzo di trasporto non è di proprietà di un singolo utente che ne dispone a proprio piacimento, ma appartiene a una comunità, i membri della quale dividono usi e costi.

Le prime società gestrici di sistemi di car sharing nacquero in Svizzera e Germania, rispettivamente nel 1987 e 1988. Alle motivazioni degli studenti tedeschi degli anni Settanta, critiche nei confronti di un certo sviluppo industriale, nei tardi Ottanta si aggiunse il rifiuto verso l’aggressività nei confronti dell’ambiente. In entrambi i casi l’idea della condivisione delle autovetture nasceva nell’ambito di piccole comunità di quartiere o vicinato e, oltre a quelle di natura ideologica, erano presenti motivazioni squisitamente economiche, legate alla necessità di ridurre le spese individuali. Stime recenti, a tal proposito, evidenziano che usando poco l’auto, fino a sette/otto mila chilometri l’anno, i costi del car sharing sono inferiori rispetto al possesso del mezzo.

È sempre nei tardi anni Ottanta che nacque l’Ecs, ovvero l’European car sharing, organizzazione con sede a Berlino, che anche oggi consente ai soci delle organizzazioni nazionali di trovare un’auto in ciascuno dei paesi aderenti. Ed è anche grazie all’Ecs che oggi in Europa il car sharing è un servizio ormai affermato. Le persone associate superano ampiamente le centomila unità e in oltre seicento città, diffuse a macchia di leopardo tra Germania, Svizzera, Austria, Francia, Olanda e Scandinavia, sono più di quattromila i veicoli disponibili. E il trend annuo di crescita degli associati è ormai stabilizzato attorno al 50%.

Come funziona

Da un punto di vista organizzativo ed economico le modalità di funzionamento di un servizio di car sharing sono sostanzialmente simili ovunque. L’utente contatta telefonicamente un call center (che ovviamente è attivo 24 ore su 24) e, dopo aver esibito le proprie generalità e il numero di tessera, richiede la disponibilità di una vettura in una determinata località a una data e ora prestabilita. Il call center verifica la disponibilità e conferma la prenotazione provvedendo a comunicare il tipo di vettura, la targa e un codice di prenotazione. All’utente non resta che recarsi al garage dove è parcheggiata la macchina, recuperarne le chiavi e accedere al veicolo. Ma le chiavi non bastano per accendere il motore: tramite un pulsante, generalmente posto sul cruscotto, bisogna ricontattare il call center per provvedere a un definitivo controllo degli estremi anagrafici e del proprio codice. Solo dopo aver espletato questa formalità ha inizio il conteggio orario e chilometrico che consentirà poi l’addebito all’utente.

Il mercato italiano

In Italia la situazione è in rapida evoluzione e sono sempre più numerosi gli esperimenti e gli studi portati avanti da diversi soggetti, pubblici e privati. Il maggiore è oggi l’Ics, Iniziativa car sharing: un organismo costituito da diversi comuni che si sono impegnati a perseguire una strategia comune di promozione e avvio del servizio di car sharing. Recentemente si è registrata anche un’attenzione a livello centrale, tanto che il ministero dell’Ambiente, per varare alcune sperimentazioni in città della penisola, ha stabilito un finanziamento di 9,5 milioni di euro. Il servizio sarà affidato agli enti locali tramite imprese di gestione e, stando a stime ministeriali, entro il 2005 si possono ipotizzare centomila persone iscritte a servizi di car sharing. Una cifra decisamente interessante anche perché, dato che le auto inserite nel circuito devono rispettare i più rigorosi standard di consumi ed emissioni stabiliti dall’Unione Europea, questo dato sarà in grado di garantire, tra l’altro, un risparmio annuo di ventimila tonnellate di anidride carbonica. Parrà un controsenso, ma purtroppo sono proprio le città maggiormente colpite dall’emergenza ambientale quelle più in ritardo con i progetti ministeriali. Un esempio arriva da Milano, città per la quale il governo ha riconosciuto la gravità della situazione di aria e traffico affidando al sindaco i poteri speciali. Ebbene la metropoli meneghina è mestamente in coda alle città italiane per l’attuazione del progetto dell’auto collettiva. Un dato incontestabile che risulta dalla classifica stilata dal ministro dell’Ambiente Altero Matteoli che, nel mese di maggio 2000, ha avviato le sperimentazioni a Torino (15 autovetture) e Venezia (10). Quest’anno è stata la volta della provincia di Milano, escluso il Comune. Per Bari, Catania, Trieste, Perugia e il Comune di Milano il ministro ha precisato che devono essere ancora ultimati i progetti.

A Milano un servizio privato

In realtà nella metropoli lombarda esiste già un servizio di car sharing privato: è quello realizzato da Lega Ambiente, in collaborazione con il Touring Club. Da settembre scorso, infatti, i milanesi possono contare su quattro auto e tre parcheggi, e la rete è in costante espansione. Gli iscritti a oggi sono sessanta e associarsi costa 100 euro all’anno. Le tariffe sono di 0,28 euro per chilometro e 1,6 all’ora (di notte la tariffa oraria non si applica) e il pagamento si effettua a fine mese, come fosse una bolletta telefonica.

Un’opportunità per le aziende

Secondo coloro che lo stanno sperimentando, il car sharing, pur non essendo ovviamente la panacea di tutti i mali (del traffico), è un valido servizio di mobilità alternativa. Da una sua applicazione intelligente trarrebbero beneficio diversi strati della società contemporanea. A cominciare dalle attività legate alle imprese e ai loro business. Le autovetture in car sharing, abbattendo i costi di un dispendioso benefit come l’auto aziendale, sono convenienti per gli appuntamenti di lavoro con modesto raggio di percorrenza o per viaggiare in zone urbane con traffico limitato. Sono poi utili per il trasporto merci, offrendo la possibilità di prendere a nolo, anche per brevi periodi di tempo, opportuni furgoni. Non è un caso che il progetto milanese di Lega Ambiente disponga di due tipologie di autovetture: utilitarie, comode per la città, e auto “multiuso” adeguabili per gli spostamenti di più persone e per il trasporto di merci e oggetti. Contratti di car sharing aziendali possono inoltre offrire utili servizi anche ai dipendenti che ottengono la possibilità di sfruttare meglio la pausa pranzo o sbrigare celermente piccole incombenze legate alla vita privata (visite mediche, emergenze ecc.).

I vantaggi per i cittadini

Al singolo cittadino il servizio di car sharing offre poi molteplici opportunità, a partire dall’eliminazione della seconda o terza vettura familiare. Soddisfa chi non vuole rinunciare all’auto come servizio, ma può fare a meno di possederla e, disponendo di aree di sosta “private”, abbatte i tempi delle ricerche di introvabili parcheggi e i conseguenti rischi di multe per divieto di sosta. Consente, anche se si abita nell’hinterland, di uscire la sera aggirando il disagio della carenza di mezzi pubblici ed evita di rimanere bloccati se l’auto di proprietà è dal meccanico. In prospettiva potrebbe facilitare anche uno sviluppo della ricerca e della progettazione che tenda a superare il concetto convenzionale di auto. Un’esigenza che risulta necessaria se si tiene conto del fatto che l’industria automobilistica è sostanzialmente obsoleta e si regge sempre più su forme nascoste di sovvenzioni pubbliche e che ha avuto, nel corso del tempo, un’evoluzione assolutamente irrisoria dal punto di vista dell’innovazione tecnologica: «Se l’automobile si fosse evoluta radicalmente, quanto, per esempio, un circuito integrato semiconduttore, oggi peserebbe meno di 1,5 kg, raggiungerebbe una velocità di più di 4800 km/h, percorrerebbe più di 480.000 km con un solo pieno di carburante e costerebbe meno di tre dollari» ha dichiarato Wolfgang Zuckermann, ricercatore franco-tedesco autore di studi su come organizzare il nostro trasporto – e le nostre vite – in modo da ottenere un migliore accesso ai luoghi in cui si vive e si lavora.

Le polveri malsane e le nebbie chimicamente aggressive che hanno contraddistinto il recente inverno hanno fatto comprendere a molti che non è più rimandabile l’uso di energie alternative, come l’elettricità o l’idrogeno. O, perlomeno, il ricorso ai sistemi cosiddetti “ibridi”, ovvero quelli che si avvalgono di tecniche di propulsione tradizionali ma che, all’occorrenza (cioè ad esempio in ambiente urbano o in zone protette come parchi nazionali o altro), possono essere commutate adottando tecniche ecologiche. I parchi macchine di nuove società di car sharing potrebbero essere indirizzati verso queste soluzioni, creando interessanti dinamiche per le industrie (e i relativi indotti) che investono nella produzione di automezzi connessi alla mobilità ecologica. Una politica perfettamente consona a quanto perseguito dai cultori dell’auto comunitaria, da sempre fautori di una mobilità alternativa, capace di offrire vantaggi sia per i soci, sia per l’ambiente in cui vivono.

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