Voglia di etica

Negli ultimi mesi, la cronaca è stata segnata dalla sconcertanti vicende giudiziarie di alcune grandi aziende italiane. E di fronte a questo vergognoso panorama di falsi in bilancio, truffe e “distrazioni”, da più parti sono sorti interrogativi, più che legittimi, su quanto spazio sia rimasto, ormai, per l’etica nel mondo del business. E su quali strade sia opportuno intraprendere affinché la logica del profitto non prevalga sul comportamento responsabile da parte di aziende e imprenditori.

Già da tempo, in realtà, in alcune grandi imprese italiane (tra le altre, Ras ed Eni) è comparsa una figura d’importazione preposta proprio alla stesura e al controllo del codice etico aziendale: si tratta dell’“ethic officer”, che negli Usa è presente in 975 corporate appartenenti ai più disparati settori merceologici (dalle telecomunicazioni alla finanza, dalle assicurazioni alla salute) ed è addirittura rappresentato da un’associazione, l’Eoa (Ethic Officer Association, fondata da Mike Hoffmann nel 1991), che conta oltre 250 membri (circa la metà degli iscritti lavora per le aziende menzionate nella top 100 di Fortune). Tra i compiti di questo “addetto all’etica”, la definizione di una carta dei valori che rappresenti l’immagine dell’azienda, la formulazione di un bilancio sociale, ma non solo. Anche la messa a punto di iniziative volte a sensibilizzare i dipendenti sul rispetto dell’etica aziendale, il controllo della qualità e il rapporto con clienti, fornitori, istituzioni.

Un ruolo complesso, che non lascia spazio all’improvvisazione. Per questo Assoetica, associazione con sede a Milano che si occupa proprio dell’etica nell’impresa, a ottobre ha inaugurato un master di ethic management rivolto a senior e junior manager, che ha riscosso un notevole successo. Tanto da indurre l’associazione a riproporre il corso anche la prossima primavera. In programma, venti giornate – per un totale di 160 ore – articolate in moduli gestiti da guest teacher di prestigio come Jean Ziegler, docente dell’Università di Ginevra e relatore Onu per i diritti dell’alimentazione, Zygmunt Bauman dell’Università di Leeds, Salvatore Veca, professore di filosofia politica dell’Università di Pavia. E ancora, Serge Latouche, Edgar Morin, Carlo Pelanda. Voci illustri a cui si aggiungono quelle di manager d’azienda, consulenti, esperti di diritto del lavoro (info: www.assoetica.it).

Le più etiche? Le Pmi

A quanto pare, dunque, anche in Italia è sempre più sentita l’esigenza di tornare a una dimensione “morale” degli affari. E anche se a introdurre nell’organico l’ethic officer (o ad affidare il compito di amministrare l’etica aziendale a consulenti esterni) sono soprattutto le grandi aziende, sembra che siano le Pmi, che tradizionalmente rappresentano l’ossatura della nostra economia, le realtà più attive sul fronte etico. Secondo una ricerca condotta lo scorso autunno da Astra Demoskopea per conto di Ras, infatti, le piccole e medie imprese investono sempre più spesso in associazioni no-profit. Le motivazioni? Un sentimento etico-religioso per il 51% degli intervistati, strategie di responsabilità sociale per il 34% e vantaggi di natura finanziaria solo per il 16%.

Ma in che cosa consistono concretamente le strategie aziendali di Csr (acronimo per “corporate social responsibility”)? A illustrarle in dettaglio è una ricerca realizzata lo scorso dicembre dall’Istud, Istituto Studi Direzionali. Lo studio – che prendeva in esame 28 multinazionali europee – ha rilevato che i programmi di Csr delle aziende sono rivolti a dipendenti, clienti/consumatori, azionisti, fornitori, ma anche all’ambiente e alla collettività. Tra le azioni mirate ai dipendenti, spiccano le attività di formazione, le azioni per migliorare l’ambiente di lavoro, la presenza di asili infantili all’interno dell’azienda, i programmi di salute e sicurezza, la condivisione di codici e valori etici. Nei confronti dei clienti, invece, vengono garantiti la qualità dei prodotti, corrette politiche di prezzo, rapporti di partnershipnuove formule contrattuali. Si incentivano inoltre i tavoli di dialogo e si instaurano rapporti di collaborazione con le associazioni di consumatori. I cardini dell’approccio etico nei confronti dei fornitori, infine, sono lo sviluppo della qualità dei processi e dei prodotti, la partecipazione agli investimenti, la qualificazione professionale, l’assistenza nei processi di certificazione.

Suggerimenti per travel manager “virtuosi”

La voglia di etica contagia anche il business travel. E così l’Acte (Association of corporate travel executive, associazione che riunisce oltre 2500 travel manager di grandi e medie aziende europei e statunitensi), di recente ha organizzato l’“Ethic Workshop for Travel Executives”, una sessione rivolta ai responsabili viaggi delle aziende per illustrare i comportamenti del travel manager “eticamente corretto” nei confronti di azienda, dipendenti e fornitori. Tra i temi in discussione, l’individuazione delle aree aziendali più “a rischio” dal punto di vista etico (attraverso l’analisi di una serie di case history) e le strategie per arginare quelle forme di incentivazione da parte dei fornitori che incoraggiano i viaggiatori a trasgredire la travel policy.

Spunti di riflessione

Ma al di là dei corsi, quali sono i principi guida a cui sarebbe bene attenersi per improntare il business travel a criteri di trasparenza e correttezza? Pur senza avere la pretesa di esaurire con poche battute un argomento così vasto e complesso, abbiamo pensato di raccogliere i pareri di un consulente con una vasta esperienza in azienda – Roberta Di Leo, della società The Knowledge Team – e di un fornitore – Letizia Orsini, responsabile sales e marketing della compagnia aerea low cost Hapag Lloyd Express -. «Credo che negli ultimi anni sia aumentato il “tasso di scorrettezza” nel settore del business travel – afferma Letizia Orsini -. Tanto per fare un esempio, sempre più spesso giunge notizia di gare d’appalto organizzate in maniera poco trasparente.

«Ritengo che la correttezza e l’onestà debbano essere applicate in azienda a tutti i livelli: nei rapporti con clienti e fornitori, ma anche nei confronti dei dipendenti – aggiunge Orsini -. Spesso si tende a tralasciare il giusto riconoscimento verso il personale aziendale. Invece, in questa fase in cui i budget destinati all’incentivazione sono estremamente ridotti rispetto al passato, motivare il personale, oltre a essere una doverosa dimostrazione di rispetto, è anche un modo per migliorare considerevolmente la qualità del business.

«Il buon esempio deve partire dall’alto – conclude Orsini -. Deve essere il management a dare all’azienda un indirizzo etico, all’insegna della correttezza. In questo modo i dipendenti si sentono responsabilizzati e coinvolti e danno il massimo».

«Più che principi guida, vorrei suggerire un paio di “spunti comportamentali” in grado di rendere più fluido e trasparente il rapporto tra il travel manager e i suoi fornitori – sottolinea Roberta Di Leo -. A mio parere, il buyer dovrebbe ispirarsi a una sorta di “etica conoscitiva”, basata su due principi fondamentali: in primo luogo, dovrebbe sforzarsi di approfondire le regole che governano domanda e offerta, le leggi che muovono le dinamiche di questo mercato complesso e dinamico. Solamente abbandonando gli atteggiamenti di chiusura e accostandosi al settore del bt con umiltà è possibile comprendere a fondo le ragioni degli interlocutori, a tutto vantaggio del business. In secondo luogo, un buon travel manager dovrebbe cercare di mettere a parte i suoi fornitori di tutti gli elementi utili per comprendere appieno le esigenze aziendali. Spesso, infatti, si danno per scontate logiche aziendali di cui il fornitore non può essere al corrente. La somma di questi comportamenti rende il rapporto tra azienda e fornitori più proficuo e trasparente e, quindi, innesca un circolo virtuoso in grado di rendere il business travel davvero più “etico”».

I doveri dei dipendenti

Per concludere, un accenno anche ai “doveri” dei dipendenti, che debbono attenersi alle regole stabilite dalla travel policy. Bando, dunque, alle trasgressioni alla procedura, che vanno dalla semplice elusione, ovvero un comportamento che viola le regole, pur non sfociando in un vero e proprio atto “illegale” (rientrano in questa categoria le trasgressioni legate ai frequent flyer program, come le astuzie per volare in business class anche se la travel policy lo vieta, il tentativo di volare con vettori differenti da quelli preferenziali, l’invenzione di viaggi non strettamente necessari allo scopo di accumulare punti), all’evasione, che ha le caratteristiche di una vera e propria truffa ai danni dell’azienda (ad esempio, farsi rimborsare due volte – dal vettore e dall’azienda – il biglietto non volato, o farsi rimborsare danni inesistenti alla vettura).

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