L’inclusione è una parola che oggi risuona forte nelle strategie aziendali, nelle pagine dei bilanci di sostenibilità, nei post di LinkedIn. Ma quando si tratta di mettere in pratica i valori di Diversity, Equity & Inclusion (DE&I), il business travel si rivela uno degli ambiti più indietro.
Un recente studio realizzato da BCD Travel in collaborazione con Travel for Business ha provato a fare luce su questo nodo ancora poco affrontato. E i risultati dicono chiaramente una cosa: parlare di inclusione è facile, applicarla ai viaggi aziendali è tutt’altra storia.
Viaggiare non è uguale per tutti
Siamo sinceri: organizzare un viaggio d’affari parte quasi sempre da criteri di efficienza e costo. Ma cosa succede quando a viaggiare è una persona con disabilità? Una donna in una destinazione poco sicura? Un giovane alla sua prima trasferta? Un dipendente LGBTQ+ che teme per la propria sicurezza in certi Paesi?
Secondo l’indagine, il 4,5% dei lavoratori rinuncia a viaggiare per motivi legati alla diversità. È un numero piccolo? Forse. Ma rappresenta un fallimento enorme: significa che ci sono persone che si autoescludono o che non si sentono tutelate. E questo, in un mondo del lavoro che dice di voler valorizzare ogni voce, è un campanello d’allarme che non si può ignorare.
Inclusione: dalla teoria alla realtà
L’indagine ha coinvolto oltre 110 travel manager italiani, rivelando uno scenario frammentato. Solo 1 su 10 dichiara di avere una policy DE&I formalizzata per i viaggi. Il 36% si affida ancora al “buon senso” o decide caso per caso. Una gestione che rischia di lasciare indietro proprio chi ha più bisogno di regole chiare e tutele.
Eppure, la consapevolezza cresce. Quasi la metà dei travel manager considera un travel program inclusivo quando è in grado di adattarsi alle esigenze specifiche dei singoli viaggiatori. Non solo accessibilità fisica, ma anche supporto psicologico, attenzione alle esigenze religiose o culturali e possibilità di scegliere strutture e servizi coerenti con la propria identità.
La paura di chiedere
Uno degli aspetti più delicati emersi dalla ricerca riguarda la libertà – o meglio, la mancanza di libertà – che molti dipendenti sentono nel comunicare i propri bisogni. Il 38% dei travel manager afferma che le differenze culturali, personali o generazionali non vengono sempre espresse apertamente.
C’è chi ha timore di passare per “difficile”, chi non vuole esporsi, chi preferisce evitare situazioni scomode. Ma non dovrebbe essere la persona a doversi adattare in silenzio: dovrebbe essere l’azienda a creare un clima sicuro, dove ogni voce possa essere ascoltata senza pregiudizi.
Le categorie più vulnerabili
Non è una sorpresa che le persone con disabilità siano indicate come il gruppo più vulnerabile (82%), seguite dalle donne (64%), dalla comunità LGBTQ+ (29%) e dai gruppi religiosi (23%). Ma il dato più interessante è che anche gli over 55 e gli under 25 iniziano a essere riconosciuti come categorie da supportare.
Chi è più giovane può trovarsi spaesato, senza punti di riferimento. Chi è più senior può scontrarsi con tecnologie o modalità di lavoro che non gli sono familiari. Includere significa anche comprendere queste sfumature.
L’inclusione non è (solo) una questione di budget
Uno degli alibi più ricorrenti per non affrontare l’inclusività nei viaggi è il costo. In realtà, la principale barriera indicata dai travel manager è la mancanza di formazione interna (53%), seguita da vincoli di budget (42%) e dalla resistenza culturale (34%). In fondo, l’inclusione non è una spesa, ma una scelta culturale. Richiede ascolto, empatia, consapevolezza. E un cambio di mentalità.
Da dove comincia l’inclusione
Le soluzioni esistono. Alcune anche semplici:
- Offrire assistenza personalizzata prima e durante il viaggio.
- Formare i dipendenti e i responsabili sulle tematiche DE&I.
- Selezionare fornitori che rispettano criteri di accessibilità.
- Raccogliere feedback dopo ogni trasferta.
- Coinvolgere i lavoratori nella definizione delle policy.
Ma la vera svolta arriverà solo quando includere non sarà più un compito da delegare ai “travel manager illuminati”, ma una responsabilità condivisa da tutta l’organizzazione.
L’inclusione è un viaggio, non una voce in policy
L’indagine dimostra una cosa chiara: siamo ancora a metà strada. Le aziende iniziano a comprendere l’importanza dell’inclusione nei viaggi di lavoro, ma faticano a trasformarla in pratica. C’è bisogno di cultura, formazione, ascolto e coraggio. Perché nessuno dovrebbe rinunciare a un’opportunità, a un progetto o a un’esperienza solo perché si sente “fuori posto”.