L’inplant è out

Anzitutto, cos’è un inplant? Potremmo dire che si tratta della forma organizzativa per il business travel più in voga tra le grandi aziende e le migliori agenzie, ma anche di un modo per l’azienda di generare ricavi da un servizio in cambio di un atto di fedeltà all’agenzia. Questa, infatti, la “distorsione” cui spesso si giunge nel rapporto azienda-agenzia. L’azienda vuole sì un buon servizio, ma nel contempo è interessata al rapporto costi-ricavi generato dal sistema di remunerazione (management fee o transaction fee); mentre l’agenzia, d’altro canto, fatica a incrementare la soddisfazione del cliente facendo leva su un’unità distaccata di difficile gestione.

Si va, quindi, affermando una corrente di pensiero sempre più forte, sia fra i travel manager sia tra gli operatori di business travel, che considera l’inplant come una forma organizzativa superata o, comunque, destinata a non sopravvivere in un orizzonte di medio termine. Vediamone i motivi.

Primo: la convenienza economica. Le recenti riduzioni delle commissioni aeree, che impattano su una delle più rilevanti voci di spesa, hanno stravolto il risultato finale di alcuni sistemi di remunerazione, finora ben calibrati e basati su un equilibrio di costi (sostenuti dall’agenzia, ma pagati dal cliente) e di ricavi (le commissioni percepite dall’agenzia, ma girate al cliente) sicché laddove l’inplant, in presenza di un servizio decente, rappresentava un ricavo per l’azienda, ora rischia di diventare un costo. Costo che molte aziende non vogliono sopportare, proprio in virtù di un livello di servizio che non è sempre conforme alle attese e a causa degli alti costi di gestione (gli spazi, i costi vivi e i costi nascosti di gestione interna). Rischia, quindi, di rompersi quel “patto” tra azienda e agenzia, che per anni ha consentito all’una di incamerare ricavi (invece di pagare per un servizio) e alle agenzie di tollerare la perdita di margine in virtù di una maggiore fedeltà dell’azienda cliente (la costituzione di un inplant è sicuramente una “barriera all’uscita”), alla quale, per giunta, viene spesso delegata buona parte dell’attività di gestione e controllo degli operatori distaccati al suo interno. Possiamo configurare questa situazione come il risultato della somma di due ingenuità, o, meglio, di una doppia convenienza che si è manifestata per anni, ai danni, però, della qualità del servizio – che in questo contesto non si è potuta sviluppare adeguatamente – e, in ultima analisi, ai danni del viaggiatore: un malinteso che la rottura degli schemi economici di calcolo consolidati ha contribuito a mettere in luce.

Secondo: la natura dell’attività. Con la costituzione di un inplant, l’azienda cliente si aspetta una maggior consulenza da parte dell’agenzia. Ma quante agenzie sono veramente in grado di erogare consulenza a valore aggiunto e per di più sfruttando la struttura dell’inplant come trait-d’union tra le capacità del travel agent e le richieste del cliente? La realtà, alla prova dei fatti, è che le agenzie fanno un altro mestiere, che è ancora in gran parte concentrato sull’efficacia ed efficienza del processo di acquisizione della prenotazione, di conferma dei dati e di consegna dei documenti di viaggio: attività, queste ultime, che possiamo definire come “transazionali”, nel senso che il valore aggiunto dell’operatore sta nell’effettuare una transazione su gds (più raramente contattando direttamente il fornitore del servizio, per esempio l’hotel).

Le prospettive offerte dai travel tool (alcuni dei quali consentiranno presto di scavalcare l’agenzia e perfino i gds, accedendo direttamente ai siti web), renderanno – ad avviso di chi scrive – parzialmente obsoleta la funzione transazionale, consentendo al viaggiatore di accedere direttamente alle proposte di servizio (anche nel rispetto della travel policy aziendale). Il tema non riguarda solo l’inplant, ma apre un interrogativo più generale su quale dovrà essere in futuro il ruolo delle agenzie di business travel.

Terzo: il modello di outsourcing. Per outsourcing si intende – solo e soltanto – laterziarizzazione di un’attività non-core a un fornitore, tramite un processo di accurata definizione, preparazione e attuazione di un Sla (Service level agreement), nonché verifica della qualità del servizio erogato. In tale definizione, il mix di risorse utilizzato dal fornitore per raggiungere gli obiettivi dello sla è una specie di “black box” i cui contenuti sono invisibili al cliente, che, invece, si concentra sulla misurazione dei risultati. L’inplant, al contrario, con una gestione mista agenzia-cliente – che si evidenzia, tra l’altro, nella condivisione di costi e ricavi previsti dalla formula di remunerazione – obbliga, di fatto, il cliente a essere largamente investito dei problemi di gestione dell’inplant, anche perché (e questo punto è stato largamente sottovalutato dalle agenzie) la sua limitata dimensione non consente la costruzione di un adeguato meccanismo di management: si verifica, cioè, il paradosso per cui un inplant con due o tre operatori è difficile da gestire in quanto non è possibile costituire, all’interno di un’unità aziendale così piccola, una minima struttura di management e quality system – e il controllo e la gestione dalla sede centrale dell’agenzia risultano difficoltose -, mentre quanto più l’inplant cresce verso una dimensione che consentirebbe tale organizzazione, via via perde la sua ragion d’essere, venendo ad indebolirsi i rapporti di consuetudine, familiarità e integrazione, tra operatori e azienda cliente, che ne sono spesso il punto di forza.

D’altro canto, l’inesistenza di una struttura di supervisione degli operatori e di riferimento per i clienti-viaggiatori fa sì che eventuali scadimenti di qualità del servizio siano imputati quasi esclusivamente agli operatori, spesso al singolo addetto – identificato con nome e cognome!-, attraverso un fastidioso e talvolta ingiusto “processo” teso a trovare un capro espiatorio. Allora si cominciano a cambiare gli operatori, a fare i confronti tra l’uno e l’altro, in un ridicolo processo di valutazione, da parte del cliente, che è la negazione stessa della definizione di outsourcing. Proviamo a pensare, per fare un esempio, a una partita di calcio: gli episodi sono importanti, a volte decisivi, e gli errori dei singoli giocatori possono pesare parecchio, ma potremmo mai affermare che la colpa della sconfitta di una squadra possa essere attribuita a un solo giocatore?

Quarto: i costi occulti. Proprio per i motivi sopra esposti, ogni azienda che possieda un inplant è costretta a istituire, all’interno della propria organizzazione, un punto di contatto e di “supervisione” nei confronti dell’inplant, che faccia le veci del responsabile interno. Che si chiami travel manager, direttore acquisti, funzionario responsabile o focal point, egli è quotidianamente investito da una serie lunghissima di problemi, lamentele, richieste ecc.

Quando l’azienda si accorge di questo costo di gestione, soprattutto se i conti dell’inplant non tornano e la qualità non è quella desiderata, comincia a chiedersi perché debba fare al proprio interno il mestiere del travel agent, quando spendendo di meno e risparmiando tempo, potrebbe rivolgersi a un’agenzia esterna. Un altro paradosso, come si vede, al quale cominciano a essere sensibili diversi travel manager, dopo aver cercato di risolvere senza successo i problemi che un inplant talvolta porta con sé.

Quinto: l’organizzazione. Anche dal lato dell’agenzia, si possono creare grosse diseconomie causate dall’inplant, che, in quanto servizio esclusivo e distaccato, non può beneficiare delle sinergie tra servizi, clienti e operatori differenti. Per esempio, si tratta di un servizio “non scalabile” (definizione mutuata dal linguaggio informatico anglosassone, che identifica l’attitudine di un sistema a crescere in parallelo ai bisogni del cliente e senza fasi di sovra/sotto dimensionamento), perché non è in grado di gestire efficientemente i picchi di attività o i periodi di crescita nei quali non è conveniente (economicamente) aggiungere una risorsa, nonostante gli operatori attuali non siano sufficienti.

Inoltre, la prolungata assenza degli operatori dalla sede centrale rischia di deteriorarne la professionalità, la carriera e la motivazione, soprattutto se l’ambiente di lavoro presso il cliente è causa di stress e di insoddisfazione professionale.

C’è da chiedersi, quindi, se a fronte di queste carenze, l’inplant debba ancora considerarsi un modello vincente nell’organizzazione del business travel. A parere di chi scrive, continua a rappresentare un buon modello di transizione tra un servizio di tipo tradizionale (simile al retail) e un servizio personalizzato, per quelle aziende che hanno un numero di traveller compreso tra i 200 e i 500, possibilmente localizzati in una – massimo due – sedi. Oltre questi numeri, occorre cominciare a guardare con interesse a soluzioni differenti, quali la costituzione di un contact center dedicato (presso la sede dell’agenzia) e l’implementazione di un tool di prenotazione tecnologicamente avanzato, che consenta al viaggiatore di accedere direttamente ai servizi desiderati.

Vincoli e opportunità dell’inplant

In Italia sono oltre 200, considerando esclusivamente le 13 agenzie con il più elevato volume di affari nel segmento business travel. Sono gli inplant, una forma di outsourcing che prevede l’affidamento dell’area viaggi a personale d’agenzia dislocato all’interno delle sedi aziendali. Una sorta di plus che, di solito, viene incluso nelle trattative commerciali con l’adv in fase di request for proposal e ha il vantaggio di garantire all’azienda un migliore livello di servizio e una riduzione considerevole dei tempi di prenotazione. In genere, un inplant dispone di uno o due addetti dell’agenzia, una stampante Iata per emettere i biglietti di viaggio e una serie di servizi accessori gestiti direttamente, oppure dalla sede centrale dell’adv.

Di solito, l’allestimento di questo apparato conviene a imprese con un fatturato mensile di biglietteria aerea non inferiore ai 500 mila euro annui. Con voci di spesa al di sotto questa cifra, infatti, secondo gli esperti, non vale la pena di farsi carico dei costi del personale e della remunerazione dovuta all’agenzia, nonché dei costi vivi (linee telefoniche, cancelleria ecc).

Può convenire, invece, l’adozione delle sole stampanti satellitari remote (stp), che permettono l’emissione dei biglietti direttamente all’interno dell’azienda. Per usare questi strumenti correttamente l’azienda deve rispettare un rigido regolamento Iata, che prevede la collocazione della stp in un luogo opportunamente protetto, la dotazione di cassaforte per custodire i documenti di viaggio in bianco e l’identificazione di un responsabile a cui fare riferimento. Le stp, però, hanno il vantaggio di essere estremamente veloci e flessibili e di permettere all’azienda di svincolarsi dai tempi di consegna delle agenzie. Inoltre le adv, usufruendo dei programmi di incentivazione promossi dai gds (che sono gli unici distributori di stampanti satellitari), spesso sono in grado di farsi interamente carico dei costi di installazione e gestione. Anche l’utilizzo delle stp, comunque, è consigliabile solo a fronte dell’emissione di un consistente volume di biglietteria, per non rischiare di andare incontro a costi passivi.

Tornando all’inplant, per anni questa soluzione è stata oggetto di un’accesa querelle legislativatesa a definirne il ruolo: impresa autonoma, ovvero filiale (con la conseguenza, per le agenzie, di doversi munire di regolare autorizzazione, pagare una tassa regionale, versare un deposito cauzionale e dotare l’inplant di un direttore tecnico a tempo pieno) o semplice distaccamento dell’agenzia? Alla polemica ha posto fine, nell’ottobre 2001, una sentenza della Corte costituzionale, che richiamandosi a una precedente sentenza della Consulta in merito alla legge regionale della Lombardia, dichiara l’illegittimità delle normative che regolamentano le succursali d’agenzia in Abruzzo (n.1 del 12 gennaio 1998 e n. 39 del 14 luglio 1987) e Veneto (n. 44 del 30 dicembre 1997), definendo una volta per tutte che gli inplant non vanno considerati come imprese autonome, bensì come articolazioni dell’adv. Il decreto, salutato con sollievo dagli operatori del settore, salvaguarda la libertà organizzativa degli imprenditori, che possono dunque decidere in totale autonomia in che modo organizzare il proprio lavoro, limitando, a seconda delle esigenze dei clienti, l’attività alla sola sede principale o articolandola su un territorio più vasto.

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