Upgrade: le differenti filosofie a confronto

Con il termine «upgrade» si indica la possibilità, per l’utilizzatore di un’auto aziendale,  di scegliere un modello più costoso, in termini  di canone mensile di noleggio, rispetto a  quelli della categoria a lui spettante, a fronte  dell’aumento dei costi di utilizzo da lui sostenuti  o del versamento (all’azienda o direttamente al  noleggiatore) di un certo importo , secondo le regole  stabilite dalla car policy. Non si tratta di un  termine unanimemente utilizzato, ma di una versione  molto diffusa; vengono usate anche altre  terminologie similari come “trade-up” e altro ancora.

Accessori a volontà?
Nel tema generale del trattamento dell’upgrade  devono essere considerati anche gli accessori a richiesta,  visto che alcune aziende tra quelle che  sono interessate al fenomeno permettono solo  questo tipo di miglioria a favore del driver. Secondo  i dati di alcuni benchmarking effettuati  negli ultimi anni, sarebbero meno della metà delle  aziende italiane quelle che consentono le operazioni  di upgrade, ma un quinto di esse si limiterebbe  a consentire accessori più costosi, sempre  dietro pagamento del maggior costo da parte del  dipendente, al fine di consentire una maggior  fruibilità dal mezzo, soprattutto per utilizzo personale  e familiare.
È evidente che questa pratica riguarda solamente  le auto di flotta in uso promiscuo, cioè lavorativo  e personale. E risulta altrettanto chiaro che esso è  connesso al ruolo sempre maggiore che l’auto  aziendale sostiene all’interno della politica retributiva,  come strumento di compensation alternativo  allo stipendio in busta paga e il cui successo  si basa sulle caratteristiche di visibilità, comodità  e facilità d’utilizzo, risparmio e differenziazione  dimostrate nel tempo.
A questo proposito, l’approccio delle aziende è diverso  e perfino diametralmente opposto: ce ne sono  alcune che puntano sull’auto come il più importante  benefit per attrarre e trattenere le risorse  umane e altre che dichiarano di concederla soltanto  ai dipendenti a cui serve veramente, con  grande attenzione verso i costi e i possibili risparmi  ottenibili. Inoltre le aziende si trovano a dover  affrontare altre questioni delicate prima di definire  la propria politica di upgrade: la più importante  di queste è la  “rappresentatività”, anche in termini  di potere apparente, connessa all’auto aziendale.  Presentarsi da un cliente con un’auto di prestigio,  per esempio, conferisce autorevolezza, in un paese  come l’Italia nel quale l’abito «fa ancora il monaco» e uno stile di lavoro informale e privo dei segni  distintivi che accompagnano il potere, ha sempre  grande difficoltà ad affermarsi in molti settori.  Che cosa succederebbe se, per esempio, il direttore  commerciale e un suo account executive si  presentassero dal cliente con la stessa auto, il primo  in linea con la car policy e il secondo perché  ha pagato un forte upgrading?

L’importante è apparire
Come si vede, il driver che ha deciso di utilizzare  la procedura di upgrade potrebbe perfino «millantare» con i clienti, con i colleghi, con gli amici e i  conoscenti un trattamento aziendale molto migliore  di quello a lui spettante, dato che l’auto è  visibile, mentre gli eventuali importi versati dal  dipendente non lo sono. Anni fa, si credeva che  un dipendente che investiva il proprio denaro in  un consistente upgrade dimostrasse, con questo gesto, il desiderio di rimanere a lungo in azienda,  almeno per la durata del contratto di noleggio a  lungo termine (Nlt) della sua vettura; poi si è scoperto  che, durante i colloqui con gli head hunter,  si dichiara l’auto assegnata dall’azienda, ma nulla  viene domandato sui costi sostenuti dal dipendente,  a eccezione del carburante. L’operazione di  upgrade viene pertanto affrontata con la speranza  che, in caso di dimissioni, l’eventuale importo  totale dell’upgrade già versato al momento della  consegna della vettura e non ancora goduto, se  non rimborsabile secondo quanto previsto dalla  car policy aziendale, possa venire facilmente recuperato  in fase di negoziazione con il nuovo datore  di lavoro, utilizzando l’attuale auto assegnata  come parametro di riferimento.
Alcune aziende, secondo la propria cultura e la  propria funzione economica e sociale, avvertono  fortemente il desiderio di sobrietà aziendale e la  preoccupazione di non mostrare simboli di opulenza,  compreso l’abbigliamento dei propri dipendenti.  Alcune banche raccomandano ai propri  funzionari di vestirsi in maniera elegante e formale,  ma di evitare capi costosi e firmati; addirittura  chiedono di non mostrare al cliente la propria  auto se al di sopra di un certo prezzo, anche  nel caso in cui si tratti di auto personale! Il ragionamento  che sorregge queste considerazioni è intuitivo:  il cliente associa immediatamente i costi  dell’auto aziendale o dello stipendio del funzionario  alle proprie spese e immagina che esse servano  a coprire anche i costi dell’auto, sia aziendale che  personale, o dei vestiti firmati. 

Le controindicazioni  di una policy libera
In effetti il cliente potrebbe ragionare in questo  modo: se con i miei soldi ti puoi permettere un  lussuoso Suv, allora ti puoi anche permettere, a  maggior ragione, di farmi uno sconto! Per questa  ragione, e per rispettare una certa gerarchia in  termini di rappresentatività, molte società pongono  un tetto all’upgrade e vietano il cosiddetto  “doppio upgrade”, ovvero  la possibilità di ottenere  un’auto di due categorie  superiori (secondo i dettami  della car policy), anche  pagando una cifra ragguardevole.  D’altronde, la consistenza  dell’importo dell’upgrade  non è sempre un ostacolo  sufficiente, visto che alcuni  driver che non hanno  un ruolo gerarchico elevato,  comunque guadagnano molto bene (per esempio   funzionari di vendita) oppure hanno beneficiato  di generose assegnazioni di stock options (un fenomeno accaduto nel corso degli ultimi
quindici anni in molte realtà del mondo informatico  e dei new media, in particolare); inoltre, nella  nostra realtà socio-economica, ci sono parecchie persone, a tutti i livelli di reddito, disposte anche  a fare molti sacrifici pur di possedere un’auto di  lusso.

Upgrade ed emissioni inquinanti
Lo status, la differenziazione, la non-omologazione,  da sempre sono legate all’automobile come  simbolo di potenza e design. Questo approccio, da  parecchio tempo assecondato da molte aziende  che vogliono soddisfare i loro dipendenti con una  politica di benefit al di sopra o in linea con la media  del mercato, ha posto numerosi problemi  quando i fleet manager e i dirigenti d’azienda  hanno cominciato a pensare a una “flotta verde”,  in linea con il desiderio di contribuire alla riduzione  delle emissioni e con le direttive emanate recentemente  dall’Unione Europea. Pagare un upgrade  significa quasi sempre aumentare la potenza,  la dimensione, i consumi e, di conseguenza, le  emissioni della vettura, e il concetto di «pagare  per inquinare» è fortemente criticabile, anche se  lo stesso Parlamento Europeo lo ha adottato, consentendo  ai produttori di eccedere, in futuro, i limiti  previsti a fronte del pagamento di un corrispettivo  che poi andrà a gravare, inevitabilmente,  sul prezzo d’acquisto.
È parere di chi scrive che la decisione responsabile  e al passo con i tempi, di orientare la propria flotta  su una strategia “green” mal si concili con la libertà  di scegliere anche vetture più inquinanti  pagando un upgrade: ridurre seriamente le emissioni  di CO2 e di particolato della flotta comporta,  infatti, una forte limitazione dei modelli, delle  motorizzazioni e delle potenze anche con l’obiettivo  di coinvolgere noleggiatori e costruttori  nell’elaborazione di una proposta che sia economicamente  sopportabile per l’azienda.  I costruttori, d’altro canto, vedono fortemente ridotta la loro capacità previsionale di fatturato nel  momento in cui il driver ha la totale libertà di  scelta e la possibilità di pagare per una vettura di  categoria superiore, non potendo il fleet manager  dirigere i flussi di ordini verso alcuni modelli e determinate  case e limitando, in tal modo, la possibilità di concludere accordi commerciali più efficaci  con il noleggiatore e i costruttori, che spesso  sono anche clienti importanti della stessa azienda.  D’altro canto, per i costruttori vendere modelli  più grandi o ben accessoriati è fonte di marginalità  superiore (big cars, big profits – dice un vecchio  adagio delle aziende automobilistiche). E i  guadagni derivanti dalla vendita di accessori è  maggiore rispetto a quelli garantiti dall’auto in sè  e per sè.

Pilotare la scelta di upgrade
Dal punto di vista del cliente-azienda, però il  massimo dell’efficacia e dell’efficienza della gestione  della flotta si raggiunge quando il fleet  manager ha la possibilità di orientare la car policy  verso un ristretto ventaglio di modelli, con una  configurazione di accessori abbastanza standardizzata  e la completa determinabilità dei flussi  d’ordine per categoria di assegnatari, senza che  trade-up trade-down possano modificarne la  scelta. Tuttavia lo stesso risultato potrebbe essere  parzialmente raggiunto attraverso una valorizzazione  della quota-upgrade che avvantaggi determinati  modelli e ne penalizzi altri, anche se non i  tratta di uno schema molto usato: anche per  semplicità di gestione, quasi tutte le aziende che  consentono l’upgrade determinano un tetto di  costo (canone più accessori) per ciascuna categoria  di assegnatari, per cui il dipendente paga la  differenza di canone tra quello della vettura scelta  e il tetto della sua categoria. Questo importo è  solo un componente del costo totale pagato dal  dipendente per l’uso personale dell’auto, che  comprende anche l’eventuale quota di addebito  imposta dal datore di lavoro, da detrarre dall’ammontare  dello stipendio in natura, valorizzato sul  cedolino dello stipendio e corrispondente a 4500  chilometri all’anno per il costo chilometrico “Aci”  di ciascun modello.
Tutte le cifre pagate dal dipendente per l’utilizzo  personale dell’auto, compreso l’eventuale upgrade,  vanno sottratte a tale quota e, nel caso in cui  siano superiori alla quota fiscale stessa, il dipendente  non paga nessuna tassa su questa componente  in natura dello stipendio; pertanto, se l’upgrade  viene calcolato in maniera esattamente  uguale a quello della quota-benefit, è possibile  abbattere la fiscalità e, di fatto, convertire l’ammontare  delle tasse in upgrade, spendendo i propri  soldi per migliorare la propria vettura invece  che per pagare l’Irpef sulla vettura aziendale.  L’importo dell’upgrade può essere pagato al Nlt o  all’azienda, mensilmente oppure upfront, in unica  soluzione prima del ritiro dell’auto nuova, come  richiesto da molte aziende per evitare che le somme  non ancora versate dal dimissionario rendano  la vettura rientrante di difficile collocazione presso  un nuovo utilizzatore. Infine, esiste anche il  concetto di downgrade (trade-down)in base al  quale l’utilizzatore che decide di ordinare una  vettura di categoria inferiore alla sua ottiene un  ristorno di canone da utilizzare, per esempio,  nell’acquisto di accessori.

 

 

  Condividi:

Lascia un commento

*