Da biz traveller a expat

La presenza delle imprese straniere nel Paese asiatico è sempre meno “mordi e fuggi”. Si fa più frequente la necessità di localizzare un manager sul territorio cinese. Aumentano i viaggi del personale cinese in Italia. Con quali implicazioni? Risponde Andrea Benigni, amministratore delegato di ECA Italia, società leader nella consulenza per la gestione degli espatriati. ECA supporta le aziende chiamate ad affrontare le sfide d’internazionalizzazione delle risorse umane.

Che quota occupa la Cina nella vostra attività? 
«È certamente il Paese a più elevata domanda di espatrio da parte dei nostri clienti. Un pensiero diffuso è quello secondo cui le aziende italiane e in generale le multinazionali occidentali delocalizzano le loro produzioni per sfruttare i benefici di un costo del lavoro che in Cina è decisamente più basso. Posto che il tema del livello delle retribuzioni cinesi ha assunto da tempo un andamento controtendente, soprattutto nelle grandi città, è sempre più consistente lo spostamento di attività industriali e commerciali in Cina per una ragione molto più aziendale: localizzare la propria impresa laddove il mercato lo richiede, in forza di una domanda a carattere esponenziale con una larga parte del mercato ancora oggettivamente “inespresso”».

Il Paese asiatico presenta problematiche particolari?

«Più di una. È ormai molto difficile operare se non si è precostituita un’organizzazione locale, seppure minima. È stata significativa la presenza di aziende occidentali che in una prima fase della loro presenza cinese non avevano provveduto a organizzare strutture locali, ma soltanto un presidio concretizzato attraverso l’invio di manager che si appoggiavano presso partner locali o, nel quadro di progetti di marketing d’acquisto, su propri fornitori locali. Oggi è bene avere fin da subito un’organizzazione, un ufficio di rappresentanza, una branch o, nella forma più completa, una legal entity. Posto lo scenario organizzativo, il manager internazionale o l’expertise inviato in Cina non può lavorare senza la formalizzazione di un contratto locale: è una logica conseguenza di quanto appena citato in materia organizzativa e un contratto lo si può formalizzare solo con una controparte locale, quindi con una legal entity o con un ufficio di rappresentanza. Il tema del working visa è molto delicato, rileva che le aziende siano pronte ad affrontarlo con la dovuta attenzione. Così come il tema di un’adeguata pianificazione fiscale e previdenziale: questo è uno dei più importanti limiti che spesso incontriamo nel corso delle nostre due diligence aziendali; le aziende italiane in particolare non sono in media pronte a gestire un processo che tocca simultaneamente due Paesi, quello di origine del manager e quello di “atterraggio”, in questo caso la Cina. L’effetto domino che ne consegue è un aumento esponenziale dei costi perché a livello di HR Management non era nota la possibilità di sfruttare determinate leve gestionali e normative con effetti di risparmio significativo sul costo dello spostamento del manager».

Supponiamo che una multinazionale debba gestire il viaggio di un “turista” con mandato biennale per lavorare nella sede di Wuhan. Che parli inglese ma non cinese. Che sia alla sua prima esperienza nel Paese asiatico. Di quale supporto avrà bisogno per integrarsi nell’azienda e nella cultura locale?
«La premessa a questa domanda è che un turista non potrà mai avere un mandato biennale per lavorare in Cina, in qualsiasi sede. Un lavoratore dipendente, un manager o un tecnico, verrà inviato in distacco o, nel linguaggio internazionale, in secondment presso una data società cinese, realisticamente controllata dalla capogruppo italiana o da una multinazionale occidentale. Nel quadro di questo contesto è frequente lo scenario che lei richiama: il manager parla inglese ma non cinese, i suoi nuovi interlocutori parlano certamente cinese, molto più difficilmente l’inglese. Largamente frequente è che l’esperienza del manager sia la prima nel Paese asiatico. L’impatto multiculturale è di norma molto importante: molte aziende ci riferiscono “quel manager è eccezionale, gli affideremo il progetto di sviluppo della sede di Wuhan”. Dopo qualche mese, torniamo nella stessa azienda e ci dicono “non ce l’ha fatta, il suo gruppo di lavoro aveva caratteristiche e profili troppo diversi da quelli cui era abituato, aveva bisogno del traduttore cinese vicino a sé, molte volte non era certo se quello che pianificava e diceva in riunione era correttamente tradotto… E poi la famiglia non ce l’ha fatta, la moglie non si è ambientata. I più attrezzati e flessibili alla realtà locale sono risultati i figli”. Che non è una banalità (quella dei figli): è frequente siano i primi ad ambientarsi in Cina come in un altro Paese. Il problema è che le aziende italiane  – e quelle internazionali in generale – non preparano il loro personale sul piano multiculturale, ma solo e soltanto su quello del business e delle competenze. La dimensione relazionale e di diversity management passa in secondo piano e se il manager non è dotato di skill proprie, inesplorate dalla propria azienda, rischia il drop down. E non sono pochi».

Se, come sembrerebbe dalle ricerche e dai prospect di medio periodo, viaggeremo sempre più verso e dalla Cina per motivi di lavoro, quanto sarà importante avvicinare alla cultura del Paese asiatico gli operatori del settore?
«Invii un tuo top manager all’estero? Nel piano organizzativo che caratterizzerà la sua assegnazione inserisci realmente il tema multiculturale, al centro, dai un committment forte, come azienda, a questo punto dell’agenda. Altrimenti notevoli sono i rischi di fallimento del progetto».

Dobbiamo anche aspettarci un incremento dei viaggi di lavoro dalla Cina verso l’Italia. Come dovrebbero attrezzarsi gli operatori del turismo che si occupano dei biz traveller cinesi?
«Il trend è già aumentato, mi riferisco a viaggi di lavoro & business e assegnazioni internazionali di manager e tecnici. È una conseguenza fisiologica dell’internazionalizzazione dell’azienda: il lancio di uno stabilimento in Cina richiederà con tutta probabilità un periodo di training operativo di risorse cinesi in Italia, al fine di acquisire la tecnologia aziendale da un lato e la cultura del gruppo di riferimento dall’altro. Ma non solo: è sempre più frequente che l’azienda italiana abbia acquisito un importante cliente cinese: in questo caso il main contractor della nostra azienda italiana vuole venire a supervisionare il lavoro del suo fornitore italiano e invia in Italia propri manager a controllare lo sviluppo del progetto. Si sta ribaltando, in parte, la relazione originaria. I biz traveller cinesi dovrebbero a nostro avviso conoscere un po’ di normativa italiana in materia di immigrazione: molto spesso arrivano sulle nostre scrivanie progetti legati all’assegnazione in Italia di manager o tecnici cinesi, con le aziende che dicono “hanno un lavoro, non ci saranno problemi ad entrare in Italia”. Ma con tutta probabilità i manager cinesi non disporranno di una “quota” per entrare. Per scavalcare questa criticità in modo perfettamente lecito devo allora conoscere, bene, la normativa che regola il lavoro straniero in Italia e nello specifico il processo di ingresso extra quota. È possibile che questo tema non sia del tutto coperto tra gli operatori turistici. E attenzione all’abuso dei business visa: con il business visa puoi venire in Italia a fare riunioni, seminari, convegni. Non a lavorare dietro una scrivania! Altrimenti non sei regolare, attenzione!»

Testo di Simona Silvestri, Mission n. 5, settembre 2012

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